• Susan Sontag

    Un'arte di quel che passa

    Trattare l'esistenza come soltanto flusso, ombra, variazione perpetua, impermanenza. Una spietata saggezza, antica come i presocratici e sempre nuova. «Io non dipingo l'essere», (la formula è di Montaigne), <«io dipingo il passaggio». Il passaggio -- cioè il movimento per cui, ciò che è, sventatamente si cancella; il momento che, scomponendosi, diviene un altro momento. Un'animosa saggezza, nata dai sentimenti più profondi di privazione.
    Come rendere il reale -- concepito come un mutamento irregolare, senza disegno nè posa -- con un'arte statica, plastica, non narrativa?
    In primo luogo, operando a cicli o in serie -- producendo gruppi di elementi correlati: variazioni su un tema, esempi di un tipo. Elementi che, con le loro giustapposizioni, trasmettono un appropriato senso di radicale continuità, mentre, guardati serialmente, suggeriscono una narrazione che sia stata soppressa.
    In secondo luogo, sfidando l'idea stessa del ritrarre o dipingere. (Dipingere è impossibile: giacchè ogni oggetto percepito è, nel momento di riconoscerlo, percepito in processo di evanescenza...). L'arte si situa, invece, sull'orlo dell'apparenza, al limite del visibile o del leggibile. Ogni oggetto è nè più nè meno che un'occasione, un momento. L'arte è evidenza (non pittura) di realtà.
    Un'arte di quel che passa, intorno a una realtà che è già passata... lasciando una stesura o uno spruzzo di tracce. Come il battito di rosso che si attarda sull'orizzonte del deserto per qualche minuto dopo calato il sole, o il filo, color limone, di orina sulla neve. Un'arte che pedina la realtà, seguendone delicatamente le orme semisfumate, tracciandola di lontano. Da una distanza senza presunzione.
    Una coscienza che mira a un'ideale docilità verso il reale: idealmente sensibile, idealmente testarda.
    Un'arte che copia umilmente, che disegna con fedeltà: Marilù Eustachio ha desunto molti ritratti da fotografie. L'immagine, segno essa stessa, è evanescente. Un'idea d'arte come un raccogliere, sistemare, costruire, un lasciar tracce. E un coprire le tracce: col dar loro un forte smalto, o col velarle.
    C'è nulla di più discreto della versione Eustachio del genere letterario egoistico per eccellenza, il diario? Il più recente ciclo di lavoro di Marilù Eustachio, il verbale di un anno, questo diario insomma, è un registro di occasioni fantasma. Colore che è muto. Segni che sono snudati: tracce come di scrittura, che sono invariabilmente sgorbi, raramente parole. Immagini in stato di indigenza: la fotocopia di una fotografia. L'evidenza come detrito: biglietti, ricevute, etichette; i frammenti di una pagina di calendario, un giornale, una carta geografica. Questi materiali di stampa semplice, familiari dai tempi dei collages cubisti e dadaisti, diventano, nell'opera dell'Eustachio, segni in stato di modestia. Segni tranquilli, timidi, garbati. Segni che appena dicono nulla. Eppure.....
    L'arte come agile volubilità. Una coscienza che distilla offerte di senno e di piacere, con la sua arte di commento meticoloso, con la sua lievità e scorrevolezza di tocco. Un'arte che cela le proprie fonti ossessive, per proporsi come una forma di grazia. La riduzione dell'arte a gusto. Gusto nel senso di buon gusto: le soddisfazioni dell'eleganza, della raffinatezza, della reticenza, dell'equilibrio. E gusto anche nel senso dell'assaporare: un rapporto con la realtà perfettamente giocoso, e astutamente appettitivo.
    Ideali suggeriti dal lavoro di Marilù Eustachio: scetticismo come buon gusto. E buon gusto come un modo d'essere scettici.

    25 febbraio 1981

    New York

  • Goffredo Parise

    Cara Marilù,

    sono molto contento che tu faccia una mostra a Capri. E lo sono, non soltanto per te, ma perché una tua mostra a Capri e per di più di ritratti, è una curiosa coincidenza che sta a dimostrare a me, appunto, perché ne sono contento. Sarò più chiaro.
    Il tuo genere di pittura, o per meglio dire di disegno (perché i tuoi sono sempre e comunque disegni) pure rientrando nei canoni classici dell' arte moderna », tutta, giù, giù, fino ai concettuali a cui in certo qual modo appartieni, è invece arte molto antica, antica come il mondo e passa perfino attraverso i graffiti dell'Hoggar nel cuore del Sahara. Ma, essendo tu italiana, passa soprattutto attraverso la pittura romana e pompeiana. Difficile da scoprire trattandosi di pittura quasi monocroma, apparentemente fotografica e perfino radiografica. Eppure, quando noi, ancora fortunati osservatori di ricordo » pittorico passiamo davanti a un muro di Pompei battuto dal sole estivo, o ci soffermiamo di fronte ad un altro muro infuocato di Villa Jovis, là dove ancora qualche cosa è rimasto dell'intonaco dove era apparsa un tempo della pittura, ora scolorita e ridotta si può dire a un puro fantasma di pittura, ad uno scheletro esangue di colore, quando ci accade questo, proviamo una grande emozione: è l'emozione della labilità della storia, suggerita dalla labilità della materia pittorica che pure fu spalmata su quel muro millenni addietro, dalla labilità della materia del nostro corpo, insomma della labilità di tutte le cose. Ciò che sta davanti ai nostri occhi è più ancora che un suggerimento, un'ombra, appunto come quelle ombre di colore e di graffito che sopravvivono al ter tempo o quelle ombre delle radiografie che ci dicono che lì, in quei contorni, in quei chiaroscuri, in quell'esistenza più suggerita e ambigua che reale, li stava non soltanto un corpo, un volto coi i suoi lineamenti, ma anche un'anima. L'anima di una donna romana, di un fanciullo danzante, di un sileno. Secoli e cenere li hanno ricoperti e quasi cancellati, ma ancora oggi noi però sappiamo, grazie all'anonimo pittore.
    Così è per la tua micro pittura, graffita più che disegnata, ombrata più che dipinta, proiettata più che materializzata. C'è e non c'è. Appunto come quei graffiti, o quei lievi residui di intonaco spesso nemmeno protetti dai vetri dei sovraintendenti alle belle arti, dove si inerpicano erbe e lucertole, o quei frammenti lirici di Mimnermo, Alcmane e altri. Essi ritraggono mille volte di più nella loro esistenza d'ombra, di quanto ci mostrano grandi quadri classici di ieri e di oggi. Insomma, per concludere, il fascino dei tuoi ritratti è un po' simile a quello che emana dalla leggenda delle tombe etrusche. Per la prima volta aperte dopo millenni, mostrano intatto il corpo e il volto di chi vi fu rinchiuso: per un istante, un istante solo, per subito dissolversi nel nulla. Ma quell'attimo, quell'ombra, quell'illusione, è tutto. Così passa la nostra traccia su questa terra ed è già molto. Molti auguri dal tuo

    1980

  • Amelia Rosselli

    «Per prima cosa, di solito, traccio dei segni sulla tela che, in parte, poi annullo con colore assai diluito, per ritracciare altri segni che vengono a loro volta ricoperti da stesure di colore sempre più corpose, e così avanti, finché il quadro sembra essersi formato da solo secondo le leggi sue interne. I segni sottolineano lo spazio, lo delimitano... L'immagine è destrutturata nei suoi elementi essenziali dai quali è possibile ripartire per ottenere una nuova immagine... Materiale informe che sempre più, spero, si andrà informando alla realtà».
    Questo andava scrivendo Marilù Eustachio per la mostra «Tema e Variazioni» a Bolzano nel 1983. Scrisse anche altro, ma quell'altro mi sembrò superfluo. Venni colpita invece proprio da questo paragrafo, che sembra dare via tutte le sue intenzioni, tutto il suo cercare, tutta la sua attività, con una chiarezza tale, sempre esprimendosi in termini semplici e tecnici, che non mi pareva vi fosse da aggiungere altro. Cioè: da questo nucleo o da questa formula del «fare>> su tela o carta, con olio o pastelli o segni, s'interpreta la sua pittura del passato, di quel periodo, e ancora meglio il suo dipingere di oggi, che infatti sembra cominciare a «informarsi della realtà», «ottenere nuova immagine».
    L'annullare i segni tracciati sulla tela con carboncino, non si sa se per ragioni dinamiche o «per delimitare lo spazio», prima con colore assai diluito, lasciando, naturalmente, alcuni segni fuori <«come per caso», per poi <«ritracciare>> altri segni che vengono a loro volta «ricoperti di colore sempre più corposo, e così avanti, finché il quadro sembra essersi formato da solo», mi rende evidente, da una così chiara esposizione dei procedimenti ad uno scopo, che il quadro non sembra affatto essersi formato da solo, e nemmeno <<secondo leggi interne». È che Marilù Eustachio sogna un quadro che si forma da solo secondo leggi sue interne, ma il quadro in sé stante è sempre stato o rappresenta sempre un suo aspirare ad un suo personale sviluppo assieme psicologico e pittorico, estetico e formale. In questi quadri e pastelli e disegni del 1985-1986 s'evidenziano corpi sempre di donne, sempre viste da dietro, meravigliosamente accennati, e sono corpi che è il suo, sempre con la testa invisibile e china, come se vergognandosi, nascondendo o lavandosi una testa, dei capelli, nascondendo un imbarazzo del resto neutro.
    Questo è il tema dominante della mostra tematizzata dall'amore, che in lei è un imbarazzo femmineo e delicato forse una delusione. A volte due corpi bianchi appena crema s'allacciano, e sembrano identici o di uomini o di donne, ma non ancora là l'immagine s'incorporea, né dà segnali d'avvenimento. Parlano di speranza, e sospetto che parlino di speranza delusa. Un solo quadro («Nudo n. 2») esce dalla problematica intima, ed è estremamente dinamico rispetto agli altri, e arde d'ogni tema immaginabile.
    Ma quello che anche colpisce della pittura della Eustachio, quando non si possa seguirne le origini, del tutto analitiche ricercate e astratte, è la dolcezza dei colori e la delicatezza nell'affrontare il reale: come oggetto non di desiderio ma di sogno, e di fantasia perennemente ravvicinantesi.
    Studiando i cataloghi delle sue molte mostre personali in Italia, e nelle mostre collettive il suo essere conosciuta sin dal 1959 (Quadriennale d'Arte, Roma), oltre che a Tunisi nel 1963 e a Beirut nel 1978, a Baden Baden nel 1981 e nel 1982 a Parigi, non ho troppo badato ai pur bei commentari della Susan Sontag, del Quesada, pur bravo nel riportare il sensorio della struttura pittorica a quello letterario, e della Marisa Volpi: mi sono attaccata a quel piccolo paragrafo in apparenza soltanto artigianale, e perciò apparentemente senza alcun messaggio d'estetica o d'ambire. Sono rimasta in imbarazzo cosa potevo aggiungere? Non parla forse della sua tecnica l'autore come se fosse la sua estetica?

    Roma, 2 aprile 1986

  • Giorgio Agamben

    L’intelligenza del colore

    Rovesciando l’opinione comune, Bonnard ha scritto una volta che ”il disegno è la sensazione, il colore è il ragionamento”. Questo teso, provocatorio aforisma si attaglia perfettamente al lavoro di Marilù. Nei taccuini e nelle carte, la sua mano insegue a tal punto il pulviscolo delle sensazioni, che il segno si sfrangia in migliaia di piccoli tratti e quasi scarabocchi, in cui vibrano -ancora per un attimo- le petites perceptions che -come Leibniz diceva delle onde del mare- non è mai possibile afferrare distintamente una a una. Certo, sotto questa fitta, quasi tessile, trama, emergono -appena- delle forme: una casa, un albero, un volto, una montagna -ma subito nuovamente dileguano e quasi rovinano nelle innumerabili trafitture dei sensi.
    Ma quando, voltando pagina, come in quella che nei taccuini porta la data 14-04-04, improvvisamente esplode il colore - un tenero ocra dorato- allora è il colore e soltanto il colore a espugnare l’intelligenza e la forma stupenda di un fiore, in cui l’assedio notturno delle sensazioni è stato levato e tutto si è estaticamente composto in luce e pensiero. Come Marilù stessa ha scritto, le sensazioni “emergono dal buio verso la luce, dall’indistinto al distinto, dall’assente al presente”.
    In questo senso il colore è qui intelligenza e ragione costruttiva. A patto di precisare che l’intelligenza non è mai separata dall’immaginazione - che, come in Cavalcanti e negli stilnovisti, l’intelletto unico di Averroé si unisce ai singoli individui attraverso i loro fantasmi e i loro desideri, anche se questi dovessero in lui estenuarsi e perire. Ed è qui che Marilù si sente a casa propria, come nelle carte che la sua mano ha siglato con l’intraducibile termine tedesco che le sta da sempre così a cuore: Heimat.

    2018

  • Erri De Luca

    Ho conosciuto tardi le montagne. Da bambino un vulcano occupava l'oriente. Secondo le luci del giorno era al mattino un dolce di forno, lievito della notte, a sera invece era un bubbone inciso. Sia impasto o escrescenza, un vulcano non è una montagna. Sopra il suo largo cratere galleggiavano nitide a forma di tazza, opera di vasai, Quando fui sotto le montagne per la prima volta vidi: pugni, bargigli, dita, some, campane, fiordi contro il cielo. I profili dei monti marcavano i bordi di un confine, tra quelle cime e l'aria si frastagliava a incastro il limite del suolo. Dovevo raggiungerlo. Ho salito le pareti spalancate, lungo versanti a picco, su guglie molate dai lampi, rigate da scoli di ghiaccio. Come ogni scalatore ho sentito il mio corpo perduto come una formica nell'acqua, quando il vento lo scuoteva per toglierlo dagli appigli. Ho conosciuto le montagne come un cieco, che tasta per avanzare come per credere. Ho asciugato la fonte sulla roccia fresca, ho ascoltato i sassi volare vicino con crepitio improvviso, come quello del pesce messo a friggere. Delle montagne ho toccato molte superfici, ma solo quelle. Ora le temo come i vulcani, le loro valanghe come un terremoto. L'esperienza è di rado conoscenza, più spesso un inventario aggiornato di pericoli...

    ... La conoscenza avviene come un crampo e chi la prova vuol dimenticarla, sciogliendola come una contrazione. Con un singhiozzo secco nello sterno vidi qualcosa che resta celato a chi percorre asperità di superficie: in quelle montagne sotto la roccia oscillava un'onda. Raduno i resti di pensieri venuti e perduti. Il mare sotto i monti: certo anch'io avevo visto le conchiglie e i fossili di cui la roccia è intrusa, sapevo la risacca intrappolata in altre ere da un sussulto di abissi che aveva agglomerato in pietra il mare vivo. Ma le montagne di Marilù non erano fondali emersi e scaraventati in alto, con stelle marine mutate in alpine. Non avevano imprigionato un'onda ma ne erano sorrette, avendola per anima. Cercai nel Libro tracce del passaggio che Marilù aveva forse seguito incrociando il profilo di un'onda con quello di un'altura. Trovai: «Si ammassarono le acque, si drizzarono come diga i flutti, si solidificarono gli abissi nel cuore del mare». Cosi prorompe il canto di Mosè dopo il guado a letto asciutto del Mar Rosso. Lo stato liquido era migrato in quello solido, poi ne era ritornato. Un vincolo reciproco si era li stabilito tra la pietra e l'acqua: la materia ha formule segrete che sospendono le leggi producendo l'anarchia dei miracoli. È il disordine del creato che il matematico prova ad ammansire con equazioni e nel quale invece deve inoltrarsi l'artista. È il guado asciutto che si richiuderà dietro di lui, impedendo il ritorno: si illumini o si perda. Dopo averlo varcato Marilù ha concepito le montagne.

    1991

  • Vittorio Rubiu

    Marilu Eustachio è un'artista di singolare presenza che espone una nutrita serie di opere alla galleria II Collezionista a Roma. Simona Weller, nel suo libro, che è anche un utilissimo pron. tuario sul contributo dato dalla donna all'arte italiana del No. vecento, ricorda gli inizi dell'Eustachio, intorno agli anni Sessanta, caratterizzati da un vivace impegno sociale. Un riflesso del quale si può forse cogliere nei quattro esemplari di studi sul ritratto, esposti alla mostra. Attualmente, come dimostrano i disegni, in cui l'immagine che nei ritratti già si era cosi rarefatta da stentarsi a vedere. scompare del tutto, l'artista è soprattutto, direi unicamente, sensibile ai valori di superficie. Questi valori risultano da un intreccio di segni che vengono tradotti sulla tela in un modo abbastanza insolito, che solo in parte, limitatamente al materiale usato, ricorda i veli che Franco Angeli applicava sulle sue immagini. Infatti l'Eustachio si serve di garze incollate sulla te- la, inzuppate di colori o dipinte sopra. Queste garze, col loro spessore minimo ma con una specifica granulazione, sono il solo elemento di ritmo sulla superficie, quasi sempre monocroma, e per lo più geometricamente ripartita in quadrati o rettangoli. Qui è facile riconoscere un parallelismo con la Nuova pittura | risultati migliori sono nei quadri neri e opachi, grandi pagine quadrate in cui il legge ro sobbollimento della stesura della garza a volte in piccolissimi frammenti toglie alla monocromia l'uniformità.

    1977

  • Domenico Rea

    Dinanzi ai dipinti della Eustachio si vorrebbe restare in silenzio, giacché il silenzio è il primo pensiero - immagine che suggeriscono le sue figure. Si tratta di solito, di personaggi severi, tristi, chiusi in se stessi, al di qua di ogni meraviglia e sorpresa della vita.
    Si pensa, ecco, a personaggi negativi decisi a non parlare più, ritenendolo inutile; e in questo loro stato d'animo, in questa rigida opposizione, ritrovano il perduto calore umano. La sua pittura all'estremo limite del figurativo e della rarefazione, è pesante come la condizione dell'uomo moderno, attraversata da foschi colori, quasi vampate di un mondo misterioso. E' in fine una pittura chiara in se stessa, che non cede a nessun artificio e allettamento. E' il suo limite; ma un limite che роtrebbe portare lontano.

    1961

  • Paolo Milano

    Un diverso sguardo

    Rudolf Arnheim parla di una giornata grigia, di trame astratte che paiono sitare a staccarsi dal fondo, tanto scarsa è la luce. A me, l'opacità delle zarze di Marilù Eustachio pare deliberata, una scelta quasi assoluta: l'arta, infatti, le ha volute in maggioranza monocrome e di un'unica dimen fone. Quando, per singolare eccezione, io ne vidi una sola a tre vivi colori, colpito da un simile di quella "emozione irrompente" che il sottoposto in "Rorschach", (il "test" psicologico della serie di macchie nere che migliano a tante cose senza raffigurarne di preciso nessuna), che l'esamiato (dicevo) prova quando, dopo tante schede in bianco e nero, gli si porge all'improvviso una carta colorata.
    Se oggi, accanto alla lunga odissea di tanti attraverso le specie dell'arte di "comportamento" o di "concetto", è comparsa la "nuova pittura", come si chiama il ritorno al dipingere, Marilù Eustachio ad essa appartiene; ma come pittrice astratta e materica, a mezza strada, dunque, tra gli eversori di ieri e gli odierni fedeli di una "nuova figurazione". La Eustachio da alle sue garze incollate e dipinte uno spessore minimo ma una molto variata granulazione. Tutto è tenuro su tono basso; pittoresco, e neanche sempre, è soltanto il nome del colore via via adortato, ("Violetto di Marte", "Terra d'ombra naturale"...).
    Marilù Eustachio scrisse tempo fa che «i materiali che l'esistenza le fornisce le sembrano ricchissimi, ma che le basta mettersi al lavoro per vederseli rarefare sotto gli occhi. Forse la sua scelta della pittura materica, equidistante dalla << non-pittura >> dalla figurazione, è il suo modo di ancorarsi in un "più reale". O forse, una pittura così concepita è il suo sforzo di superare il contrastotra vita ed arte: come si espresse nella stessa occasione, "far sì che tra interno ed esterno, tra privato e pubblico, tra il lavorare e l'esistere, ci sia un'osmosi continua".

    Roma Gennaio 1979

  • Rudolf Arnheim

    Due Mondi o Uno

    A sentire che Marilù Eustachio ha una mostra a Milano, mi torna in mente il pomeriggio (a Roma, qualche mese fa) in cui lei stessa mi mostrò suoi lavori recenti e di anni passati. La giornata era coperta, per cui disegni e dipinti pareva riluttassero ad emergere dalle loro superfici. A prima vista, un'incolmabile distanza sembrava interporsi fra i "ritratti", legati a fotografie di figure famose, (in realtà, "citazioni" non solo delle persone rappresentate ma delle immagini standardizzate per cui pubblicamente le conosciamo), e dall'altro canto, studi astratti di trame delicate, eseguite con gran cura. Epperò, una curiosa influenza dei lavori precedenti su gli ultimi suggeriva che anche le supposte "astrazioni" nascondessero, sotto una superficie reticente, una qualche leggibile memoria di un mondo a tutti noto, ma negato alla nostra vista dalla gelosia con cui una sensibile artista reagisce a un mondo fin troppo pubblico.

    December 1978

    Ann Arbor, Michigan

  • Alice Ceresa

    Ho sempre avuto la curiosa impressione che la mano di Marilù Eustachio non tracciasse i suoi disegni sulla carta, ma ne traesse segni lontani già in qualche modo in essa contenuti. È probabile che questa immaginazione mi sia stata suggerita dai ritratti di anni fa che si affacciano pallidi ma inesorabili dal nulla e si svelano sottovoce ma fedelissimi, quasi trattenuti nel foglio, monocordi e sensibili; ma è anche vero che nessuno degli altri lavori di Marilù, di allora e di ora, non riferibili a quella particolare tecnica, sono riusciti a distogliermi dalla iniziale suggestione. Ricordo anche due quadri, uno rosso intenso e l'altro di un nero implacabile, usciti fuori sulla superficie da non si sa quali profondità.
    Ho poi visto spesso Marilù in circostanze quotidiane munita dei suoi taccuini e di pennellino e boccetta d'inchiostro (quasi un'appendice della sua mano) disegnare spesso e volentieri in compagnia, senza distrarsi da quanto le viene detto o fatto intorno, seguendo con tratto sicuro non si sa se piuttosto un'idea che ha già preso il corso del suo braccio e magicamente compare sul foglio, se invece una voce interiore che non evita alla mente una diversa presenza, o se non appunto una misteriosa filigrana che emerge dal foglio stesso, soltanto a lei visibile finché il pennellino non l'ha tratta e definita in superficie. C'è la medesima spontaneità in questo suo disegnare a ore perse che c'è nella persona stessa di Marilù nel suo incontro con gli altri e con il mondo, nella sua risposta agli stimoli di quanto la circonda: sempre immediata, positiva e senza riserve apparenti. Una spontaneità che non è semplicità e tanto meno irruenza, difetto di mediazione né assenza di ponderazione, bensì l'adesione naturale di una sensibilità mobilissima e dalle mille sfaccettature all'interpretazione di stimoli vicini e lontani: rivelando, nel lavoro, una vocazione che direttamente, instancabilmente traduce la vita nel segno figurativo. Ma quale vita? Non vi è nulla di meno figurativo in senso stretto, visivo, delle figure disegnate da Marilù.
    Ed ecco ora le sue teste dipinte, la sua sorprendente galleria di antenati, di contemporanei e di futuri viventi su questa terra, una conquista di colori e una varietà di pose, allineate nello stesso formato una accanto all'altra sembrerebbe all'infinito, una specie di giudizio universale senza condanna e senza speranza. Sono teste che non necessariamente hanno un corpo. Escono da una densa poltiglia di colore pastoso, di materie sotterranee, di impedimenti, di difficoltà di vivere. Non hanno tratti riconducibili a fisionomie risapute, riconoscibili. Si presentano erette o inclinate, talvolta riverse o sollevate da una nascita informe, senza ostentazione e senza l'affermazione di un "io" predeterminato, dicendo con forza soltanto la loro necessità di vivere qui e ora per dare testimonianza. Sono presenze dolorose e inquietanti, senza sguardi e senza voce, e costringono chi le guarda a riconoscersi in questa o quella nella meno rassicurante delle identità possibili. Prive di particolari riferibili qualsiasi spiegazione a una di se stesse affidata al nostro tranquillo controllo del mondo, affermano soltanto l'essenza lacerante e interrogativa dell'umano. E anch'esse non sovvertono minimamente l'impressione che affiorino, per quanto stavolta prepotentemente, dalla tela stessa per perdurare senza ulteriori rimandi dentro il ritaglio della loro cornice, forse già amputate in partenza. Se ne potrebbe dedurre che i disegni e i dipinti di Marilù Eustachio ritraggano, nelle forme, la vita interiore di queste ultime, la loro idea stessa.

    1995

  • Elisabetta Rasy

    Cara Marilù,

    da quando ho cominciato a conoscerli e ad ammirarli, le figure che tu tracci e i colori a volte tenui a volte ipnotici che spandi sulla tela o sulla carta hanno sempre avuto ai miei occhi qualcosa di enigmatico. Come se mi lasciassero senza parole, confusa in un silenzio, un silenzio confortevole e un po' misterioso. Certo, le tue opere sono simili a te: vanno per la loro strada, indifferenti a qualsivoglia etichetta che possa semplificare commenti e collocazioni. Hanno qualcosa del tuo procedere nel mondo, che definirei asimmetrico, ora dal lato dell'appassionarsi ora dal lato del nascondersi, imprevedibilmente. Ma adesso, di fronte al corpus che tu esponi in questa mostra forse anche stimolata dal titolo che le hai scelto, tu che conosci molto bene il valore delle parole mi pare di aver capito qualcosa di più di questo enigma, senza la pretesa che sarebbe un oltraggio di volerlo fino in fondo decifrare.
    Il silenzio da cui queste opere emergono credo abbia qualcosa a vedere con la contemplazione. Non perché le opere siano in generale oggetti da contemplare sappiamo bene che non è così, non è soltanto cosi ma perché le tue opere fanno parte di un tuo personale esercizio di contemplazione. Anzi lo dico subito: esse mi appaiono qualcosa di molto simile, nell'ambito della pittura, a ciò che in letteratura si definisce la scrittura mistica. Al fondo di questa scrittura c'è un percorso che è un cammino di spossessamento dell'io, potremmo anche chiamarlo di spossessione. Allo stesso modo, al fondo della tua pittura mi sembra di vedere il desiderio di sottrarre le forme alla padronanza e alla prepotenza dello sguardo, di restituirle a se stesse, alle loro precarie ma autorevoli esistenze. Restituirle cioè a una luce originaria dove ogni certezza è sospesa e sostituita dallo stupore, lo stupore dell'apparire in cui l'essere e il niente si toccano, o arrivano persino a identificarsi. Mi viene in mente una frase della tua amata Simone Weil: " Vedere un paesaggio quando io non ci sono". Tu ci sei, naturalmente, ci sei nella vita, nel tuo gesto sicuro d'artista e nel tuo studio dove si accumulano davvero si accumulano come in una stratigrafia geologica le tracce del tuo esserci, che per te equivale al costante esercizio del disegno e della pittura. Ma ai tuoi paesaggi parte per il tutto, forme silenziose che tu sottrai allo spazio ordinario tu restituisci la loro autonomia, come se stesse a loro voler apparire e non a te farle apparire. Tu ti ritrai e loro appaiono.
    C'è qualcosa di perentorio in entrambi questi movimenti, una sfida reciproca. Cosi avviene nella scrittura mistica: non c'è trama, intreccio, personaggi quello che in letteratura corrisponde alla tridimensionalità dei corpi e soprattutto non c'è l'autore, o meglio: l'autore è un tramite. Qualcosa parla: questo è il discorso mistico, l'inverarsi di un ascolto al servizio di una voce che preesiste e che si ribella a un senso prestabilito. Questo mi pare il percorso che torno a definire mistico della tua pittura: l'inverarsi di uno sguardo al servizio di immagini che impongono la solitudine e il mistero del loro esserci. Qualcosa esiste. Montagne e fiori, alberi, teste, case e angeli, certamente angeli ma tutto è angelico: l'angelo è l'inaspettato che si manifesta.
    Finora ho pensato, vedendo i tuoi disegni i taccuini e le tue tele, che tu lavorassi per sottrarre le forme all'invisibile che le minaccia. Ora, guardando la costellazione che queste opere compongono, mi sembra il contrario. Ogni cosa è visibile purché passi un angelo a liberarla dalla tirannia prepotente cui il nostro sguardo padronale abitualmente la sottomette, ogni cosa è visibile purché lo sguardo si faccia discreto e umile, purché la lasci esistere, purché si inchini al suo silenzio.
    Credo sia questo il difficile esercizio della contemplazione, sapere di aver visto tutto e di non aver visto niente, affrontarsi con lo stupore infantile e non lasciarsene disarmare. Praticare il paradosso, abbandonarsi alla congiunzione degli opposti e degli estremi. Lasciare che ogni cosa dica addio a se stessa e torni a dirsi addio, si consegni a un esilio in cui, forse, potrà ritrovarsi.
    Passione e lontananza, dare asilo alle forme esiliate, combattere l'usura con la contemplazione: tale mi pare il percorso del tuo lavoro. Chissà se tu, misteriosa come sei, ti ci riconoscerai.

    1999

  • Marina Miraglia

    L'interesse estetico e formale delle fotografie che Marilù Eustachio ci propone, sta nello stretto rapporto di continuità rispetto a tutta la sua produzione artistica, quella pittorica e grafica, cui saldamente si embricano, contribuendo a definire un saldo e coerente nucleo poetico di ricerca e di percorso.
    Non meno dei disegni, specie nella loro accezione seriale e diaristica dei taccuini si ricorda la recente mostra della Galleria d'Arte Moderna di Bologna (marzo/maggio 2005) la pratica e l'uso della fotografia da sempre hanno infatti costituito un importante momento di studio e di riferimento, una ricca e polisemica fucina di idee che non solo si coagulano e si esprimono direttamente nell'elaborazione di opere di per se stesse compiute, ma anche, e forse più di frequente, valgono a costituire e a costruire una raccolta di appunti emozionali rapidi, densi e significanti, pur nella loro apparente disinvoltura di ripresa spontanea e diretta del reale.
    Eustachio non è solo un'attenta e sensibile lettrice di testi letterari e poetici della migliore letteratura moderna e contemporanea, ma anche una divoratrice insaziabile di immagini, di testi insigni della storia dell'arte e di quella attigua della fotografia; ha quindi approfondito ed arricchito nel tempo quella prerogativa artistica che fonda, come tratto imprescindibile della creatività, la consapevolezza della divaricazione profonda che esiste fra la realtà e sua riplasmazione figurale.
    Questa consapevolezza si riflette anche nella pratica della fotografia, un tecnica artistica che il senso comune, con un anacronismo culturale non più tollerabile, ricollega ancora ad una resa esatta e precisa, non connotata, del reale, quasi obbligandoci a credere reale tutto ciò che la fotografia registra. Eustachio, con le proprie fotografie, quasi condensando in esse il percorso sperimentale ed 'analitico' di numerose ricerche dalle avanguardie artistiche ad Ugo Mulas, da Luigi Ghirri all'uso postmoderno della nostra contemporaneità spezza con forza, pur se in maniera inconscia e forse non meditata, l'identificazione tautologica tra immagine fotografica e suo referente nella misura in cui l'interpretazione soggettiva ed autoriale che ci viene offerta corrisponde esattamente, per senso e significato linguistico, a quel mondo poetico che l'autrice ha costruito in tutta la sua carriera di artista, avvalendosi di altri media, decisamente manuali.
    Fra i tratti che, pur nel costante rispetto dell'autonomia linguistica dei vari media adoperati, più di altri sono in grado stabilire un ponte espressivo evidente fra fotografia, pittura e disegno nel processo unitario di ricerca, spiccano soprattutto l'evanescenza delle forme colore e il complesso intrico dei segni che frangono la luce in mille sfumature.
    Nei vari temi trattati non a caso ricorrenti anche nella pratica grafica e pittorica nelle nature morte, nei fiori e nei paesaggi, sia in quelli naturali che urbani, la realtà è osservata e trascesa attraverso varie tipologie di diaframmi traslucidi e trasparenti: fogli di plastica, persiane, vetri più o meno spessi che rendono complesso e misterioso l'attraversamento dello sguardo, specie là dove su quelle cartilagini di luce si depositano i grumi specchianti di mille gocce d'acqua piovana. Il colore è quasi sempre inventato ed artificiale, dosato e creato dall'uso dello still life, più spesso modulato su particolari rifrazioni della luce in determinate ore del giorno o in particolari stagioni dell'anno.
    L'infinito graduarsi delle forme, colte in mille sfaccettature cromatiche, trasparenti e sfumate nel delicato ed aereo fluire della luce, sembra alludere all'indefinito possibilismo della nostra contemporaneità e, insieme, ai quesiti che l'arte di Eustachio si pone e ci pone con un'inquietudine esistenziale che non si nasconde, anzi si mostra come silente e discreta testimonianza: "essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo/realizzare in sé tutta l'umanità di tutti i momenti/in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante" (Pessoa).

    1994

  • Fabrizio d'Amico

    Questi smalti e pastelli su carta, datati prevalentemente al 1984, sono forse il limite di una stagione per Marilù Eustachio; che ha già presentato, a Roma e altrove, il frutto di un suo lavoro più ancora recente: grandi nudi di donna, di cui ricordo il volto nascosto, e quasi scancellate le forme, tranne la schiena o il torso espansi, grevi, slabbrati, forse dolenti. Un passo inatteso era stato, quello: mosso con strano coraggio quasi con risentimento verso un'iconicità pur imperfetta, ma determinatamente chiamata ad un ruolo sovrano.
    Risentimento se tale fu lo stato d'animo che la indusse a muovere quel passo che mi pare ora, di fronte a queste carte rimaste fin'oggi segrete, giustificato da quel fronte liminare cui la sua pittura era giunta, nell'elaborazione di un linguaggio tutto e rigorosamente interno alle ragioni, agli atti essenziali del dipingere atti che la Eustachio ha portato, questa magica stagione, ad una decantazione assoluta, intoccabile da avventure sentimentali, da fughe indotte da un'accelerazione fantastica oramai per lei inessenziale.
    Negli Omaggi al Tirolo, dell'anno precedente, ove Marisa Volpi aveva visto attivo il fascino del Kandinsky del 1908, «l'illusione, o la possibilità, di una zona sommessa di confidenza, di ascolto quasi» aveva intrecciato di fronte ad un paesaggio lungamente riverberato nella coscienza il colore d'un'eco patetica; e, frammisti al ritmo necessitante dei segni, sulla pagina pittorica altri ritmi, altri segni ripetevano le emozioni di un giorno, di un'ora. Ma, quello stesso '83, i Contrappunti annunciavano l'agra sintassi, tutta interna alle ragioni di forma, delle carte qui presentate. Le governa un colore che s'inibisce scarti ed improvvise accensioni: sono grigi sedimentati, lentamente digradanti dalla luce all'ombra; inondano tutto il foglio, al cui centro maggiore, minore si delinea una griglia obbligante, una salda geometria con la quale ogni libertà, ogni digressione dovrà confrontarsi. Quasi una finestra aperta sull'universo della pittura, al suo interno si accende il percorso dei segni, ora più franco e eccitato, ora costretto a cedere al ritorno del colore che, senza mai salire a pasta, ad orgoglio materico, sopisce però di nuovo e ovunque lo slancio della scrittura.
    Radi, i punti bianchi del foglio valgono per bagliori di luce: piccoli gorghi di vuoto, minute voragini, attimi di silenzio ove il lavoro non è giunto, son lì a testimoniare il tempo lungo della sedimentazione che li circonda. Dietro i grigi e gli azzurri, un rosa un rosa straordinario, memore forse di Degastraluce talvolta: misura, con il suo lento affiorare, la durata di questa pittura. Una durata ricolma di memorie, di ragioni, che sono le più autentiche che sia dato oggi riconoscere nel panorama della migliore pittura italiana.

    1987

  • Marisa Volpi

    Dall'iconico all'astratto e viceversa

    Tutto il Moderno è in quella lieve separazione dal fondo, in quella minuscola sconnessione, in quell'impercettibile schiudersi che lascia circolare il vuoto, in quella lama irreale che divide ormai ogni fede, ogni passione da sé stessa.
    –Roberto Calasso
    <La Rovina di Kasch, 1983, p. 153>

    Ormai sappiamo quanto il nostro rapporto con la realtà sia sconnesso dalla forza dell'immaginazione, e sembra per quanto ci si provi che non si possa fare a meno di questa consapevolezza frastornante. Marilù Eustachio nell'uso accorto e raffinato del segno e del colore è permeata di questo senso della labilità. Non solo plastica, come quella degli impressionisti, in cui il variare continuo della luce pur emergendo come metafora del variare del tempo e della sfuggente tangibilità del mondo, rimane un fatto soprattutto ottico. Per Marilù tale patrimonio profondo della nostra sensibilità è diventato uno stile del bisogno di riconoscere, di captare il fluire stesso della vita con l'ambizione di non turbarne, né interiormente né esteriormente, per così dire, l'incorporea verità del suo consumarsi oggettivo. Di questa ambizione si conoscono altre prove, i ritratti per esempio, di letterati, o pittori, amici o sconosciuti, o morti, in cui la ripresa minuta dalla fotografia al segno grafico, è frutto dell'idea di farli vivere in una personalizzazione, senza tuttavia interferire con interpretazioni espressive. Anch'essi sono il frutto di una disciplina, con la quale la pittrice vive e lavora da anni, mai mossa da enfasi emotive, da prevaricazioni drammatiche. Espressioni ed emozioni sono tenute sotto controllo da un temperamento ironico, da una sensibilità «rilassata» che le permette di aderire con garbo sia a sé stessa, sia a ciò che la circonda. Un rapporto connotato dunque da una specie di rispetto, più profondo di ogni altro sentimento. Così che, anche le pagine di Diario, dipinte nell'Ottanta, non si propongono mai di esaltare, di suggestionare chi guarda, né spingono mai il pedale dell'autocompiacimento. Anzi, ogni intervento pittorico mira a creare l'illusione, o la possibilità, di una zona sommessa di confidenza, di ascolto quasi, più che di colloquio concitato. Ricordo che allora sentivo le sue tele bianche diventare una cera morbida per le orme giuste, e una terra arida con nascoste volontà di fiorire mi sembrava si irrigasse grazie all'intenso silenzio, simile a quello di un cacciatore acquattato, pronto a cogliere la preda.
    In questa occasione specifica di Omaggio al Tirolo, lo sguardo della pittrice si è sa volto con intenzione alla natura delle valli prealpine, in cui è nata, e che evidentemente significano per lei più della oggettiva bellezza del paesaggio.
    Il richiamo a Kandinsky del periodo di Murnau viene spontaneo, perché Marilù Eustachio sembra questa volta servirsi, con oculata parsimonia, di una cultura diversa da quella che tocca abitualmente. Attraverso il nuovo filtro, sfumature di colori, densità, trasparenze, segni nitidi nella loro funzione grafica, permettono, come a Kandinsky, un passaggio rapido, quasi inavvertito, dall'iconico all'astratto e viceversa, senza mai pesare con una inelaborata, e forse in questo contesto inelaborabile, figuratività paesistica. La pittura rimane vibrante di musicali risonanze interiori, ma vi si può trascinare, quasi come un dolce relitto, illuminato da una semplice perfezione del segno, un'immagine riconoscibile, qualcosa che ci fa volgere al nostro vicino per richiamare la sua attenzione: <<Guarda quel viola», o <<<Guarda quel prato, c'è anche la traccia di una casa». Si direbbe pittura astratta sur nature: la sensibilità coloristica di Marilù tuttavia non è esplicitamente timbrica, ma fatta di nuances, i contrasti dei colori sono suggeriti più che declamati. Pur se la tradizione è quasi sempre quella purista dei colori fondamentali e dei complementari. Anche dai quadri e dai pastelli ispirati alla natura dunque, il messaggio che ci giunge è la scoperta di un angolo da cui la vita si può godere con tutti i sensi raccolti dall'occhio, che è stato abituato da anni di lavoro a sintetizzarli intellettualmente. Ciò che arriva è ben accolto e permette ad una mano esercitata come quella di Marilù di trasfigurarlo in qualcosa di poetico. La tecnica raffinata non sconfina mai come sola tecnica, come bravura, né d'altra parte lascia sconfinare emozioni e visioni al di là del mezzo che le incarna. Ancora una volta una misura rara tra qualità espressive e volontà d'espressione.

    1983

  • Nadia Fusini

    LIBRI ILLUSTRATI

    Marilù Eustachio e Emily Dickinson

    Nadia Fusini a sinistra, e così via. Ma che succede se sulla medesima pagina, accanto alle parole si installano dei segni incisi con lo stesso inchiostro, eppure non sono parole?
    Accade intanto un leggero trasalimento. L'occhio ha un attimo di imbarazzo: quale immagine dovrà leggere per prima? "Eidos" è una collana di libri diretta da Vittoria Surian, che ci espone precisamente a questa vertigine. Sono libri di formato inusuale: grandi, quadrati, non certo tascabili, ma estremamente godibili, perché fatti con l'impegno artigiano di chi ama le cose materiali di cui un libro è fatto la carta, i caratteri. S'aggiunge ora al catalogo "Eidos" dopo un "Virginia Woolf" di Sara Campesan; dopo il dialogo animato sempre di parole e immagini tra Giosetta Fioroni e Andrea Zanzotto; dopo un monologo a più strati di Bice Lazzari su "L'incanto del segno- un duetto tra la pittrice Marilù Eustachio e la poetessa Emily Dickinson (nella traduzione di Barbara Lanati). Il titolo, un'espressione della Dickinson, è "Un peso viola": colore amato dalla poetessa, e che si ritrova in una macchia appunto violacea nella copertina del libro, che al suo interno, invece, rigorosamente mantiene il bianco e il nero della scrittura. I soli colori con cui una pittrice essenziale come Marilù Eustachio accompagna una poetessa a volte barocca, ma fondamentalmente amante della semplicità, come la Dickinson.
    Sulla pagina, da una parte di solito in basso, a destra o a sinistra- Marilù Eustachio incide, con la china vergata dalla punta dura di un pennino che graffia la carta spessa, dei versi della Dickinson. Poi, dalla stessa penna, sgorgano altri segni, che salgono su per la pagina e compongono a volte figure, altre volte vortici formali, dove l'occhio non rintraccia che movimento. Marilù Eustachio non illustra (e come potrebbe?) le parole di Emily Dickinson. E' piuttosto un altro l'incontro che avviene. E' un incontro tra immaginazioni simili, che si esprimono con mezzi differenti (e lo si potrà vedere anche nella mostra alla galleria Carlo Virgilio di Roma, in cui, dal 9 luglio, la Eustachio esporrà la serie dei disegni ispirati alla Dickinson insieme ad altre opere). C'è tra le due una simpatia nel senso forte di un riconoscimento dell'una nell'altra delle medesime passioni. Una solitudine, ad esempio, perentoriamente in entrambe affermata attraverso immagini forti, precise. O forse la relazione tra il segno della Dickinson e il segno della Eustachio si realizza in questo: la Eustachio mette la Dickinson al posto della Musa. Aspetta che venga da lei l'ispirazione: che "quel" segno muova il suo. O forse la parola della poetessa serve alla pittrice per cogliere un ritmo, che lei poi traduce nel proprio. Tra la scrittura della poetessa, il calco calligrafico che la pittrice ne fa sulla pagina, e il disegno, si intrecciano così complessi legami sequenziali, e complessi passaggi. E' questo dell'intreccio tra calligrafia e segno pittorico un tema molto caro alla nostra pittrice, che in taccuini preziosi ha già altre volte raccolto la stessa attenzione alla parola e all'immagine al loro intrigo.

    1980

  • Leonardo Sinisgalli

    Settimenole Tempo illustento

    Elio Mercuri ha scritto una giudiziosa introduzione alla piccola mostra di piante, paesaggi, interni tredici tele in tutto del '65 da Maria Luisa Eustachio presentati alla galleria Il Girasole di Via Margutta. Mercuri cita Kandinsky, cita Gropius, cita Boccioni per esorcizzare i giovani dalla lusinga di una "presa sentimentale o esistenziale della realtà" fine a se stessa. Maria Luisa Eustachio è una pittrice gentile e riservata che da anni lavora in sodalizio con artisti della sua età, ragazze e ragazzi che non hanno mai fatto baccano. Maestra in un istituto di riabilitazione di minorati psichici, va e viene tra studio e scuola, fuori porta. Probabilmente in questi suoi viaggi fugaci avrà visto le erbe, i muri, i cieli, i fiori che tornano nella sua pittura. Questa della Eustachio non è la realtà gonfiata o truccata o travisata dei pittori violenti, è un'apparizione subitanea e casuale. È difficile che possa diventare un documento, ed è perfino brutale caricarla di troppe intenzioni: come tanti, e sono certamente i migliori, la Eustachio stenta a riconoscersi nei programmi di gruppo. È un'isolata in mezzo alla schiera dei suoi amici. Non credo che una testata di bombola o di bruciatore possano farla assolvere dai peccati di poesia. Ricordo certi suoi squarci, certi spaccati di case e di camere, i turbini di forme in atmo sfere arroventate. C'è una tensione strana nei grovigli delle sue acqueforti; certi ritratti di donne, di qualche anno addietro, non li ho dimenticati. La forza della sua fantasia era allora inequivocabile. Oggi mi sembra un po' mortificata in un lavoro di identificazione. Una visionaria deve dare ascolto alle sue voci.

    9 febbraio 1966

  • Peter Weiermair

    Nel labirinto del tempo, dello spazio, dei luoghi e dei nomi

    Nata a Merano, ma da sempre residente a Roma, Marilů Eustachio si dedica ad un'attività artistica che raccoglie in sé due forme d'espressione attribuite rispettivamente al campo letterario e a quello delle arti figurative Nel caso specifico, parliamo di diari e di taccuini di disegni.
    Oltre a sequenze di immagini, fortemente caratterizzate da un deciso tratto grafico e spesso basate su fotografie, ovvero su una visione già mediata della realtà, l'artista realizza una miscellanea di schizzi e di note di diario, dove il suo incontro con la letteratura si manifesta in un compendio di testo ed immagini
    Susan Sontag, da tempo amica di Marilù Eustachio, ha definito la sensibilità artistica di Marilù come un raccogliere, accumulare, costruire e lasciar tracce. Volendo inserire l'artista in un contesto storico ed artistico più allargato, annotazioni come "mitologia individuale" o "ricerca delle tracce" assumono una valenza decisamente caratterizzante. Per un'artista di questa tendenza, strategie di documentazione "pseudoscientifica" sotto forma di sequenze, combinazioni di testo e immagini, citazioni o altro ancora, sono di decisiva importanza, L'arte si situa, invece, sull'orlo dell'apparenza, al limite del visibile o del leggibile. Ogni oggetto è në più né meno che un'occasione, un momento. (Susan Sontag)
    La Eustachio, lettrice assidua, osservatrice di momenti significativi quanto effimeri, nei suoi diari sembra quasi voler celare l'esperienza originale, aggirandola e rendendola invisibile fino a sospingerla nell'oscurità.
    Il diario, "la più discreta e la più egoista" di tutte le forme espressive, rivela pienamente l'esperienza letteraria e artistica di Marilù, proprio per il suo modo di concentrarla e cristallizzarla. Le diverse dimensioni dei taccuini, la loro forma e i vari tipi di carta ne tradiscono l'origine. A volte, quando la qualità della carta permette l'abbondanza di colore, hanno prevalentemente l'aspetto di album di schizzi, ma poi, nuovamente, abbandonano ogni lusso per tornare alla semplicità del solo testo, che l'alacrità della scrittura rende a volte inacces sibile perfino a chi lo ha scritto.
    Disegni e testo assorbono lo spazio del libro, sia fisicamente sia per quanto concerne l'attenzione del lettore, che guarda a loro come ad un insieme. I numerosi taccuini che accompagnano il percorso cognitivo ed emozionale dell'artista, ma anche il diario stesso come residuo del passato, rappresentano la più egoista di tutte le forme letterarie, e al tempo stesso la più discre ta. Ed è su questo che l'artista richiama la nostra attenzione, poiché sono rare le occasioni di incontro tra artisti e lettori e questa mostra è una di quelle tanto più se si tratta di diari.

    2005

  • Mario Quesdada

    Faccia a facce

    Roma. Accade d' incontrare talvolta una donna minuta, dall'aria fragile, i movimenti lenti dentro gonne, sciarpe, lane abbondanti, i capelli, insofferenti all'ordine, tirati indietro; accade di sentirne la voce che calma espone idee semplici, tuttavia profonde, protette da un'istintiva ironia; accade più raramente di vedere i suoi quadri, ma quando ciò avviene è davvero una sorpesa. Marilù Eustachio, meranese di nascita, romana d'adozione, lavora da più di trent'anni e da sempre è un'isolata, perchè orgogliosamente caparbia; attorno al suo umore insofferente ha però visto crescere una schiera eletta di amici: curioso che poeti e scrittori, come Erri De Luca, Nadia Fusini e Valerio Magrelli, siano concordi nell'apprezzarne la pittura e la scrittura, consegnata quest'ultima a brevi frammenti di diario, dove l'infanzia è un tempo difficile, l'adolescenza e la maturità lasciano spesso l'amaro in bocca.
    Da sempre Eustachio dipinge solo ciò che più la turba: erano dapprima, nel lontano 1960, Garze inamidate nel colore, sovrapposte l'una all'altra, a creare varianti di tono imprecettibili; poi furono i volti disegnati a tratti concisi di grafite, antagonista anch'essa fragile e caparbia del candore del foglio; nei primi Ottanta, a quei volti difficili da percepire si sostituirono gli angeli del Bernini che, attraverso i segni elegantissimi della china, disperdevano nello spazio intorno il peso della pietra, il lucore del travertino; accanto agli Angeli apparvero, in un'altra serie dolentissima, Nudi oppressi dal colore in un'aureola trasfigurante: lì bruciava la corporeità, lì si confondevano linea, spessore e volume.
    Ora la pittura vince su tutto il resto, come il tono poetico respinge il valore testuale delle parole; lo si vede in una mostra alla Nuova Pesa, pensata dalla stessa Marilù Eustachio sotto il titolo "Faccia a facce", dove si mette a confronto con i più giovani Andrea Fogli, Sabina Mirri e Luigi Stoisa. Quattro autori, dunque, con storie diversissime ma uniti in un corpo a corpo che non avviene tra loro quasi si trattasse di un paso doble moltiplicato per due bensì tra pittura e disegno, tra colore e segno. Ed è il colore a trionfare nei rossi dati da Eustachio in macchie soffuse, impossibilmente legato a un centro narrativo, anche se il pretesto è un fiore o il dorso di una collina al tramonto; rosso un suo personalissimo, coltivato a lungo nel tempo, che rammemora la passione amorosa, l'indicibile vocazione all'espressione, la quale Andrea Fogli contiene in sparute figure all'acquarello, Sabina Mirri in rigorosi pastelli di breve misura, dove l'ombra e la luce s'inseguono, s'accendono e si placano, Luigi Stoisa in drammatiche scene governate dal catrame.

    10 giugno 1993

  • Franco Marcoaldi

    Quel che resta

    E’ su quanto ‘resta’, poco o tanto che sia, che si posa l’occhio fotografico - amorevole e disilluso - di Marilù Eustachio. Perché tutto, davvero tutto, può essere fonte di un ‘disperato incanto’, come direbbe Wisława Szymborska: una crepa lungo la parete di una casa disabitata, l’angusto spazio di una stalla rubato con fatica alla roccia, placide mucche ai bordi di placidi laghi, giochi di rifrazioni di cieli e di acque, una rosa solitaria assopita in un bicchiere, fiumi di erbacce che come in un minuscolo ed improbabile Angkor Wat si impossessano di un vecchio edificio lasciato a se stesso. E ancora, nuvole e montagne; ghiacciai tra il bianco accecante e l’antracite; laghi tra il verde smeraldo e il blu cobalto; geometriche staccionate di un luminoso sentiero; una porta rossa in ferro sospesa sull’infinito; ramate nervature di foglie riprese al di là di un vetro bagnato; un magnifico lavatoio in pietra privo però di lavandaie.
    Sì, perché il mondo che Marilù ci racconta è quello che viene prima e dopo di noi. Comunque, senza di noi. Gli esseri umani, qui, sono assenti: a parte i morti, che tornano e ritornano nelle tombe di piccoli cimiteri di montagna sommersi dalla neve, nelle foto ricordo apposte sulle loro tombe, nei tanti cristi lignei in croce che sovrastano quei modesti sepolcri.
    Anche gli animali, del resto, sono rari: una tortora, due gatti, un cranio bestiale non meglio identificato, le mucche di cui sopra. Nel day after di Eustachio sono rimasti soltanto i segni dell’homo faber soggetti all’usura del tempo e l’ininterrotto spettacolo creaturale di un regno vegetale che invece mai si arresta e sempre si rigenera: un soffione che se ne sta eretto nella sua orgogliosa singolarità, ninfee in attesa di sbocciare, scheletri arborei nel pieno di un rigidissimo inverno, il verde senza fine di una collina punteggiata da un vecchio capanno dimenticato.
    Infine, a suggello dell’intera mostra, ecco un’immagine terragna e metafisica a un tempo. E’ quella di un fiore selvatico rosso-arancio sul punto di appassire, adagiato su un fondo (innevato?), sporcato qua e là da disordinate macchie scure. Di cosa si tratta? E’ l’emblema del cuore pulsante dell’esistenza e della sua sanguinante ferita? Il simbolo della ricchezza vitale e della sua non meno evidente, costitutiva povertà?
    Vedendo questa foto mi sono tornati alla memoria alcuni memorabili versi di Emily Dickinson, da Marilù tanto amata. Sono tratti dalla raccolta Sillabe di seta, nella traduzione di Barbara Lanati:

    Ecco chi fu un Poeta –
    Chi distilla la sorpresa di un senso
    Da significati ordinari –
    Ed estrae Essenza infinita

    Da specie familiari
    Che si estinsero alla nostra Porta –
    Ci chiediamo se siamo stati Noi –
    Proprio noi a fermarle – per primi –

    Le Immagini, le rivela
    Il Poeta – è Lui –
    Per Contrasto – a investirci –
    Di una Povertà imperitura –
    Di quanto è suo – inconsapevole –

    Al punto che – gli fosse rubato –
    Non ne patirebbe – la sua –
    Una Ricchezza – al di fuori del Tempo.

    2020

  • Gabriella Caramore

    Il faccia a faccia tra due volti è un dialogo tra icone Emmanuel Lévinas

    1. La prima cosa che ho conosciuto di Marilù, sono state le sue Teste. In bell'ordine, alle pareti della galleria che le ospitava, mi sono subito venute incontro con la loro domanda ansiosa e velata. Che non è dissimile, a pensarci bene, da quella che ogni volto ci pone quando lo incontriamo. Solo che nei quadri di Marilù l'interrogazione è immediatamente evidente. Non consente proroghe. Ci obbliga a sostare in uno spazio che non è più solo nostro, ma anche della rappresentazione di un "altro" che ci sta di fronte. Le teste, è chiaro, non sono propriamente "volti". Più "esattamente" dei volti, dicono il confine che staglia l'individuo, la sua forma, dal fondo indistinto del mondo e dalla massa amorfa della moltitudine. Il profilo della testa, così come il contorno auratico del corpo, è la linea di demarcazione fragile, mutevole, ma precisa che separa me da te, te da noi, me da altri. Ma il confine, si sa, non è solo un segno che separa. Un'altra prerogativa lo caratterizza. Il confine è un limitare che tiene con, tiene assieme, trattiene: come un tratto di spazio che mette in comunicazione mondi separati, e tuttavia contigui. I confinii profili delle Teste di Marilù non sono sempre netti, ma sempre sono decisi, e spessi. Il tratto non mostra esitazioni. Sovente, più che una linea, è spessore, elemento di consistenza, quasi a dire che il profilo, che contiene il segreto nascosto in quella testa, lo protegge e lo rivela insieme, è come un'aura che l'avvolge. E li, dentro i contorni di quello spazio, in quel magma di tenebre in movimento, qualcosa accade: una lotta si svolge ma trattenuta di pensieri, emozioni, turbamenti, folgorazioni, compimenti e fallimenti. Ma c'è un altro evento che accade in questo mostrarsi-nascondersi del volto. Quell'ombra, nella quale Marilu immerge i volti, e dalla quale li fa affiorare, viene avvolta, intrisa di colore. Ora, non necessariamente il colore rappresenta una forza rivelatrice. Ma quei verdi, cremisi, violetti, pervinca, cobalti, ocra, smeraldi da cui le forme vengono a superficie, ci mettono nel varco di un dubbio. Che cosa pulsa dentro? Una morte o una nascita? Vuole nascere, quel volto, o vuole morire? Cominiare o finire? Ecco, le Teste di Marilù esistono, mi pare, in questa sospensione. Ed è in questa sospensione che l'opera nasce.
    2. "Che la forma avanzi di fronte a un essere umano e, per mezzo suo, voglia diventare opera, questa è l'eterna origine dell'arte. Non è una creazione dell'anima, ma una apparizione che le si pone di fronte e pretende da lei una forza operativa. Si arriva così a un'azione essenziale dell'essere umano: se la porta a compimento, se con tutto il suo essere pronuncia la 'parola fondamentale della relazione, allora la forma appare, la forza creativa prorompe, l'opera nasce". Così scriveva Martin Buber quando, nel 1923, elaborava la prima forma compiuta della riflessione che ha segnato il corpo del suo pensiero e di tutta la sua vita: la relazione dialogica, quella "parola fondamentale lo-Tu"che è la "culla della vita reale". "Se sto di fronte a un essere umano come di fronte al mio Tu, dice Buber-se gli rivolgo la parola fondamentale lo-Tu', la persona che mi sta davanti non è una cosa fra le cose,...ma, senza prossimità e divisioni, riempie la volta del cielo e tutto vive nella sua luce".
    Ecco: di fronte alle Teste di Marilù ci si trova in un segreto faccia a faccia con l'altro, in una sorta di "relazione fondamentale", in cui l'altro, di fronte a me, pone l'interrogativo del nostro reciproco essere "presenti".
    3. Solo più tardi, e con una qualche sorpresa, ho conosciuto di Marilù anche l'ironia, la leggerezza, la grazia della parola, la levità della battuta, l'agilità della scrittura, la scanzonata angolatura della voce. Ma è nell'ombra scura, nascosta, di quelle Teste che si annida, credo, la parola segreta che vuole affacciarsi fuori dalle tenebre come dalla porta di una caverna, che si divincola dal buio, non per ascendere verso la luce o per "rendersi disponibile alla Grazia" (come diceva Maritain dei volti di Rouault), ma per rendersi disponibile, nella penombra radente, a un eventuale accadere nel mondo. "L'alba, dice Maria Zambrano, è l'ora più tragica del giorno, perché è il momento in cui la luce appare come una ferita che si apre nell'oscurità, in cui tutto riposa. É risveglio e promessa che può restare incompiuta". Il tramonto, invece "porta con sé il giorno ormai trascorso, con la malinconia di ciò che fu, ma anche con la sua certezza e il suo compimento. E l'uomo non è mai compiuto, la sua promessa supera in tutto la sua riuscita e continua la sua lotta costante, come se l'alba, invece di avanzare, si estendesse, si dilatasse, e la sua ferita si aprisse più in profondità, per dare modo a questo essere incompiuto di nascere". Per Marilù il crepuscolo, dell'alba e del tramonto insieme, gioca nell'ambiguità del sorgere e calare della luce, crogiuolo di ambivalenza tra l'essere già stati e il non esser nati ancora. E in quel crepuscolo, che il colore talvolta rischiara e talvolta invece precipita nella notte. Li dentro prendono vita le montagne e i fiori, le cose della natura e quelle degli uomini. Cose spoglie d'anima, secondo la nostra mentalità classificatoria. Ma chi avrebbe osato dire a Paul Cézanne che la montagna della Sainte Victoire non aveva anima, non pulsava, non respirava, non invocava, non supplicava di essere guardata, desiderata e creata nel segno, nella materia, nel colore? Chi può dire che montagna e fiore e pietra e stelle e fili d'erba non sono per chi, come l'artista, conosce solo la "parola fondamentale Io-Tu", creature che attendono d'esser fatte nascere, e di chiamare altri ancora a rivivere quella contiguità d'amore?
    4. Pur senza uscire per intero dall'opaca profondità dell'ombra che rende tremula e incerta l'identità di ciascun vivente, i Ritratti, invece, accogliendo con pazienza l'occhio indagatore della luce, lasciano intravvedere i tratti, gli elementi caratterizzanti e costitutivi dell'identità di un volto. Qui l'ambiguità investe il linguaggio, che trasmutando dalla fotografia alla carta da disegno il volto, per reinventarlo poi con la grafite, lo deposita nella minuta narrazione del segno. Il semibuio, che prima avvolgeva e insieme proteggeva le Teste dall'indiscrezione scrutatrice dello sguardo, finge, come per scherzo, utilizzando una sottile tessitura di ragnatela, di lasciar individuare facilmente il volto, appagando la curiosità di chi osserva. Ma subito dopo, quando abbiamo "indovinato" che quella brulicante galleria comprende i ritratti di Pound, di Eliot, di Giacometti, di Matisse, di Brancusi, di Klee....di nuovo si fa largo una domanda. Non più: "A chi appartiene quel volto?" Ma: "Quale istante di vita di quell'essere umano stiamo guardando? Quello ritratto dalla foto o quello fatto rivivere dalla mano di Marilù?"
    "Il volto umano è una forza vuota, un campo di morte... Il volto umano non ha ancora trovato la sua faccia e sta al pittore dargliela. Il volto umano porta infatti una specie di morte perpetua sul suo volto che sta appunto al pittore salvare, rendendogli i propri tratti. Dopo mille e mille anni che il volto umano parla e respira si ha ancora l'impressione che non abbia ancora cominciato a dire ciò che è e ciò che sa". Antonin Artaud accompagna con queste parole i suoi ritratti scavati, allucinati, sfigurati "nella barbarie e nel disordine del loro grafismo". Una compostezza, invece, protegge, in certo senso, i volti di Marilu. Da dove vengono questa misura, questa gentilezza?
    Forse dal fatto - mi viene da pensare che tutte quelle presenze sono creature vive, che l'hanno nutrita di parole, di immagini, di pensieri. E forse sono stati questi stessi esseri, a un tempo conosciuti e ignoti, vivi e morti, presenti e remoti insieme, che l'hanno fatta nascere, e maturare e crescere e capire e amare e incontrare. Per questo, credo, la galleria dei volti si completa, come in un delicato archivio della memoria, con le immagini di luoghi amati - quasi cartoline reinventate dal ricordo - in cui alle montagne, alle strade, ad angoli di case conosciute, si sommano luoghi umani, come il ritratto della madre, o di lei stessa bambina. E dunque, forse Marilù altro non vuole che restituire esistenza a chi l'ha fatta esistere, con un moto di amoroso e generoso "grazie". All'istante colto nel volto di ciascuno dallo scatto fotografico (gesto che Marilu ben conosce e ama), lei oppone, in aggiunta, l'attimo della sua personale esperienza della conoscenza di quell'essere. Per cui si può dire, con Lévinas, che "il faccia a faccia tra due volti è un dialogo tra icone".
    Ancora questo vorrei aggiungere: attraverso i ritratti, le teste, i corpi degli umani e delle cose, Marilù Eustachio porta alla luce ciò che è implicito nell'opera di creazione, che è essenzialmente relazione, movimento verso altro e verso l'altro. E solo sperimentando, esercitando, spendendo la sua vita in questo gesto, Marilù arriva a gettare, fra gli umani e le cose, un fragile ponte che li possa unire.

    2003

  • Daniela Lancioni

    Impressioni

    Cara Marilù questa parola, impressioni, si è imposta con una certa insistenza dopo la mia visita a casa tua durante la preparazione della mostra alla Nuova Pesa. Non per alludere alla mia reazione nel guardare le tue opere e nel parlare con te, dispensatrice, sia detto per inciso, di una gentilezza ferma che è dote caratteriale delle più apprezzabili. Ma per introdurre una particolare propensione all'ascolto, un lasciarsi impressionare, che mi sembra proprio del tuo lavoro il cui dono sono visioni e suggestioni proficuamente sedimentate. Il termine impressioni, inevitabilmente, implica il riferimento a un importante segmento della storia dell'arte, l'avventura, carica di conseguenze, di un gruppo di giovani pittori affiorata alle cronache nel 1874, l'anno della loro prima mostra "autogestita". Tra le opere esposte in quella occasione vi era Impression, soleil levant di Claude Monet, un dipinto nel quale un paesaggio aurorale è tradotto nella tela nel modo incerto in cui i sensi lo avevano recepito. Nel flusso dei corsi e dei ricorsi della storia dell'arte, quello di Monet e di molti dei suoi compagni, fu un nuovo modo di rinunciare alle idee ricevute, per fare un'arte fondata su un proprio innovativo criterio capace di garantire loro maggiore libertà e verità.

    Di quei lontani avi, il tuo disegno e la tua pittura conservano qualcosa, un tratto, una stesura o una trama incerta che è all'opposto delle visioni nitide del modernismo come anche dei prelievi testuali del postmodernismo. In realtà, credo che l'unica vera affinità sia nell'attitudine a lasciarti impressionare e nella ferrea volontà di restituire queste impressioni nel tuo proprio linguaggio.

    Sono anni che disegni e dipingi e il tempo trascorso premia il tuo lavoro conferendogli un primato, quello di non aver mai ceduto ai linguaggi imperanti che si sono succeduti nell'arco della tua lunga carriera. Come hai fatto a non cedere? Come hai fatto a mantenere costante, seppure con infinite varianti, il tuo modo di disegnare o dipingere? Tu che in modo raro sai prestare ascolto, osservare, dedicare tempo agli altri. Lo testimoniano le opere di questa mostra nelle quali appaiono paesaggi, impressioni di altri autori, da Rembrandt all'amato Odilon Redon, volti di filosofi o di scrittori che presuppongono lunghe e impegnative letture, da Benjamin a Yeats.

    Come hai fatto a tradurre ciò che ti deve aver investito, a volte, con la potenza di una passione, in un tuo linguaggio, restituendone l'impressione da te ricevuta?

    Forse, ed è questo di cui abbiamo parlato nel nostro incontro, il tuo segreto è nel tempo, nel tuo saper aspettare che qualcosa maturi in te, che prenda la sua strada, che si incarni nel tuo modo di stendere l'acquarello e di accompagnarlo delicatamente con la china o nello sfumare i colori che invece di smorzarsi acquistano una incredibile potenza (tratto, questo, tra i più riconoscibili e seducenti del tuo lavoro).

    Questa mostra è preziosa anche perché, così come tu l'hai concepita, è un delicato manifesto del tuo modo lavorare.

    Nel nostro paesaggio quotidiano dove il sistema imperante dell'industria ha forzatamente accelerato ogni comportamento votandolo al consumo, questa mostra ha la dignità di un modello.

    I lavori esposti sono stati realizzati in momenti diversi, sulla scia di differenti suggestioni, con tecniche e maniere diverse. Nella mostra non governa alcun tipo di omologazione, persino le cornici sono una diversa dall'altra, seppure un comune afflato, una sorta di evidente intesa permette di raccordare tutte le opere nell'alveo di uno stile che è il modo in cui tu, di volta in volta variando, restituisci le tue impressioni.

    Proprio questa commistione di differenza e di familiarità ti ha permesso di realizzare una mostra che trasmette l'esperienza di un processo lento di stratificazioni, di accumuli e poi anche di scelte e di selezioni (alcuni gesti sono utili ma non direttamente proficui, ogni opera realizzata risponde a una necessità, ma non tutte hanno la compiutezza per essere esposte). Parlando, abbiamo menzionato il termine applicazione e tu mi hai raccontato della tua applicazione quotidiana, della necessità di esercitare la mano come fa il pianista. Hai realizzato disegni, acquarelli e piccoli olii conferendo, di tanto in tanto, ad alcuni di loro l'esemplarità della cornice. Ora, su questa trama da te intessuta in combutta con il tempo, hai operato di nuovo una scelta conferendo ad alcune opere un'ulteriore esemplarità, quella della esposizione.

    Hai avuto la pazienza di lasciar sedimentare e il coraggio di scegliere rispondendo, credo, all'intima tua necessità di restituire le tue impressioni. Ossia di mettere in mostra il dialogo tra te e gli altri.

    Grazie Marilù per questa bella mostra e per questo esemplare comportamento.

    2013